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QUEL PESO CHE HA FATTO CROLLARE IL PONTE A GENOVA. “ARE YOU ITALIAN?” Visuale in 3 minuti da una U, da Copenaghen.

QUEL PESO CHE HA FATTO CROLLARE IL PONTE A GENOVA. “ARE YOU ITALIAN?” Visuale in 3 minuti da una U, da Copenaghen.

Rino Panetti

Agosto 19th, 2018

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Deve averlo capito da un qualche riflesso impercettibile nella mia espressione. Forse una increspatura del labbro. Certamente l’occhio d’improvviso fisso, umido di una voglia di lacrima.

                         [“Are you italian?”, mi chiede…]

Are you italian?”, mi chiede con lo sguardo e il tono giusti, indicando subito dopo lo schermo alle sue spalle.
Ora sono io a guardarla.
Lo schermo in effetti proietta immagini italiane. Macerie. Un crollo.

Di questi tempi, del resto, per quali altri motivi quello che ci ostiniamo a chiamare “il bel Paese” può far capolino nei titoli di un TG scandinavo?

Ora sono io a guardarla. Frazioni di secondo.

La guardo da fuori. Angolazioni diverse. Gli occhi del padre, felice per come è cresciuta. Gli occhi della sua futura figlia, piccola spinta nel carretto dietro la bicicletta e grande, pilota della compagnia aerea SAS. Gli occhi di un uomo di mezza età, rassicurato perché questo pianeta avrà un futuro. Gli occhi del suo futuro marito, persi nell’abbraccio dei suoi fianchi…o gli occhi della sua compagna, persi nell’abbraccio dei suoi fianchi. Gli occhi di un ventenne, impacciati in un approccio.

Frazioni di secondo.

                                                                        [Hygge]

La guardo da dentro. L’equilibrio tra cortesia e non invadenza. Il pensiero alla palestra subito dopo il lavoro. La casa da sistemare per gli amici la sera. Hygge è del resto la parola magica che i danesi usano per questo: ricercare una felicità non momentanea ma quotidiana, per arrivare ad un senso di appagamento nel lungo periodo.

Torno allo schermo. Capisco che il ponte è a Genova. Una tragedia.

Are you italian?

Yes, but I’m tired to be italian”. Sì, ma sono stanco di esserlo: le parole sono uscite da sole, scelte tra miliardi da qualche abbraccio di neuroni nella mia testa durante quelle frazioni di secondo e rese vive da apparati di corde vocali, lingua e non so cos’altro. L’incontinenza dei pensieri.

Eppure è vero. “Are you italian?” è forse la domanda più profonda che potessi ricevere, in quegli istanti.

Mi accompagna verso il “Chi siamo? Qual è il nostro Compito?

                                             [Il manifesto Hygge]

Intanto il ponte è svanito. Anche dallo schermo. Venti secondi è il tempo per una tragedia italiana a Copenaghen. Per noi italiani, l’ennesimo granello di un rosario oramai sterminato. Un cappio.

“Mi dispiace”, la sorprendo a dire in un italiano insospettato, da addetta alla reception allenata a stupire. Tanto allenata da essere naturale. “You should do something” (o qualcosa del genere). “Dovreste fare qualcosa”.

“Grazie”. Ma anche lei è già oltre. Due giapponesi chiedono delle biciclette da noleggiare.

Io resto poco più in là.

Il tempo che mi resta, sospeso, è quello che impiegheranno Rita e Leonardo a fare 17 piani in ascensore. Aprire la stanza 1701. Prendere due maglioncini e ridiscendere i 17 piani. Non più di tre minuti.

Tanto mi basta per perdermi in quanto segue.

“Dovreste fare qualcosa”. Già.

Quel ponte è crollato per il PESO.

Il PESO di decenni di parole inconcludenti e stordenti, tracimanti da bocche di amministratori e politici negli infiniti talk show, nei salotti, nelle stanze di bottoni, e da lì amplificati da schiere di tifosi accecati.

Bottoni analogici in un mondo digitale. Che poi, da stanza dei bottoni a stanza dei bottini talvolta è un attimo.

Ma ha un PESO anche il vuoto. Sì, quel ponte è crollato anche per il PESO del vuoto. Il vuoto di visione, di amore, di responsabilità. E il vuoto di ciascuno di noi.

Mi guardo intorno. Cerco istintivamente altri italiani. Non so perché. O forse sì: è il bisogno asfissiante di solidarietà, probabilmente.

Il pensiero che arriva subito dopo, però, tradisce il precedente.

In un flash quasi visualizzo le migliaia di italiani in ogni angolo del pianeta in questo momento: migliaia di piccoli gruppi, nelle hall degli alberghi, nelle sale d’attesa, nelle piazze più disparate, nei ristoranti…tutti pronti con le soluzioni per risolvere qualsiasi problema del nostro afflitto Paese…. Perché allora, tornati in Italia, non riusciamo neanche a far partire un treno in orario? Perché?

Rita e Leo oramai devono essere in stanza a cercare i due maglioncini per la serata di Copenaghen.

[La U capovolta_Mente cuore e volontà chiusi_Produrre insieme risultati che nessuno singolarmente vuole]

Perché non ci riusciamo? Perché nei nostri sermoni sapienti all’estero sembriamo così bravi e poi, rientrati…?

Penso di avere la risposta: il motivo è che in quei sermoni non utilizziamo mai il “NOI”, non utilizziamo mai l’”IO”.

Fateci caso: nei nostri sermoni sono sempre gli altri (un “altri” generico, che abbraccia a seconda dei casi i politici, i poteri forti, gli amministratori, gli insegnanti, i datori di lavoro, gli stranieri, i vicini di casa, ecc.) quelli che sbagliano, sono sempre gli altri quelli che devono cambiare; ma non ci accontentiamo di questo: addirittura siamo pronti a dire in cosa devono cambiare. E con quale dovizia di dettagli poi!

Ebbene, non accadrà mai nulla, se non inizieremo a dire cosa ciascuno di noi farà, nel suo piccolo. Nel suo piccolissimo: nei rapporti con la scuola dei nostri figli, le tasse, i rifiuti, il tono di voce, i colleghi.

Mi siedo su una delle comode poltrone dell’immensa hall. Con un sorriso ripenso a quell’italiano che all’aeroporto di Berlino, lo scorso anno, diceva a sua moglie in modo quasi infastidito: “Ma gli italiani sono dappertutto! Anche qui, sono tutti italiani”. Già, come se lui non lo fosse. Un vizio, quello di parlare degli altri italiani e non di noi stessi, puntando il dito sempre e comunque lontano da noi (un buon passo verso la consapevolezza sarebbe stato: “Ehi, ma SIAMO tutti italiani, qui”. Ma è chiedere troppo. Nelle piccole cose…figuriamoci in quelle più grandi).
Quando un solo treno parte in ritardo, quel ritardo lo abbiamo generato noi come Paese, non il singolo macchinista.
Il vuoto di vederci come Sistema: un PESO schiacciante.
Passare dal “Cosa ci stanno facendo” al “Cosa ci STIAMO facendo“: questo dovremmo imporci nel quotidiano Hygge.

I pensieri vanno veloci. Anche più dei potenti ascensori di questo hotel, a quanto pare.
Penso a ciò che starà accadendo in Italia. Sicuramente la manutenzione sarà uno dei temi caldi.
Lo ammetto, non trattengo uno sbuffo di sorriso. Questa volta amaro.
Quando in Italia qualcosa crolla, non c’erano i soldi per la manutenzione. Eppure io non mi capacito di come – nei miei trenta anni di percorrenza della E45 (superstrada che da Terni porta a Cesena passando per Perugia) – abbia sempre visto chilometrici cantieri di manutenzione in azione. Per trenta anni!
E chissà in quante altre arterie stradali accade lo stesso. Dunque, da un lato mancano i soldi per la manutenzione, dall’altro siamo in manutenzione continua.
Sì, non ho dubbi: è il PESO che ha fatto crollare il ponte. Incluso il PESO dell’assenza di uno sguardo sistemico,

Uno degli otto ascensori che con la coda dell’occhio tengo sotto controllo mi segnala che ha iniziato la discesa. Dal trentesimo piano.
Ancora pochi istanti e ci tufferemo anche noi nelle piste ciclabili della capitale danese. Dove le gobbe di asfalto causate dalle radici degli alberi sono evidenziate con vernice gialla. Una ad una.
Dove ogni quadratino di carta igienica ha una consistenza tale che non devi accoppiarne ogni volta due o più.
Una capitale con un obiettivo, una visione: entro il 2025 essere la prima città a impatto ambientale zero. Ci riusciranno perché ogni cittadino è impegnato in questo obiettivo, nel suo piccolo.
Quando dici o scrivi cose di questo tipo, immancabile arriva la risposta di chi fa notare (il ditino puntato, oscillante in modo saccente, penso lo possiate immaginare facilmente, quasi vederlo) come però non è tutto oro ciò che riluce… dove ci sono anche statistiche che dicono… e poi la popolazione è ridotta…
La verità è che noi siamo gli esperti del “Sì, però…”, del non cogliere opportunità per provarci. Noi evitiamo con inimitabile abilità le uniche due parole che dovremmo invece usare: “Come potremmo…?”. E, ancora meglio: “Come potrei…?”

L’ascensore si apre. Scorgo Leo e Rita. Mi alzo.
Sono stanco di sentirmi orgoglioso di essere italiano per ciò che i grandi del passato ci hanno lasciato. Vorrei essere orgoglioso per ciò che stiamo facendo ora.
Sì, è il PESO, anche dell’assenza, quello che ha fatto crollare quel ponte. E che rischia di continuare a far danni se non facciamo qualcosa.

      [agire in un istante. La forza del journaling]

Dobbiamo lavorare su quel PESO. Il resto è maquillage.
Agire in un istante. Ad esempio fermando su carta questi pensieri nel mio “journaling”. E farli diventare linfa per l’azione.
Ecco Rita e Leo. Come gli dico del ponte?
“I’m tired to be italian”

Rino Panetti. Copenaghen 17 agosto 2018.

[Il ponte di Oresund dalla mia auto]

[Riordino questi appunti dopo aver attraversato il ponte di Oresund, che collega Copenaghen con  Malmo. Il ponte più lungo d’Europa. La foto qui lo ritrae dalla mia auto]

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